--Il
nulla è una categoria
reclamata da più parti come problema di fondo
e della significazione o negazione della cultura Occidentale
o della storia della metafisica
o dell’essere. Ma, reclamare
il nulla ha, non a caso, una
molteplicità di significati. Si va, per esempio,
dalla negazione radicale di ogni categoria sovraindividuale
o sovrastorica, quindi dalla negazione dei concetti
o del pensiero o della ragione in generale, in quanto
ritenuti luoghi di distruzione del fondamento dell’esistenza
e dell’autenticità umana, alla devastazione del
Dio morale o della divinizzazione dell’uomo per ridare
nuovamente, singolarità, differenza
e
unicità ad ognuno, basandosi appunto su nulla
(è il caso di Stirner),
al nulla come possibile nuova
trascendenza dopo la morte di Dio (del Dio
morale ovviamente 2):
è il caso di Nietzsche)
o all’apertura all’essere come evento
o accadimento (Ereignis),
come contrapposizione ad ogni forma di ontologia metafisica
(è il caso soprattutto di
Heidegger).
Dal regno metafisico dei fini (di Kant)
al regno metafisico della libertà (di Marx),
è impossibile, da prospettiva stirneriana, nietzscheana
e heideggeriana, pensare in termini di telos
o mediazione spirituale fra ragione e esperienza storica,
o in termini di continuità storica
come quel processo sensato di una ragione storica o
di una ragione in generale che si impone, hegelianamente,
nella storia.
--Se
per Stirner
il nulla è quell’istanza
positiva a partire dalla quale
l’unico
3)
può dare nuovamente fondamento a se stesso e
senso alla vita, il nulla
di Nietzsche,
invece, è quell’istanza negativa
che solo accogliendola come destino 4)
la si può superare conferendo fondamento e senso
alla vita e risposta alla dissoluzione
di ogni valore e allo sprofondare dell’uomo appunto
negli abissi del nulla. In
termini nietzscheani: preferire il nulla
al non volere nulla
5),
come punto d’inizio e d’approdo per fuoriuscire dall’abisso
del nichilismo.
--La
risposta di Heidegger al nichilismo
--Con
Heidegger
spostiamo l’attenzione su una prospettiva un po’ diversa
di consumazione o superamento del nichilismo.
Intanto è la stessa filosofia della tradizione
occidentale, come ontologia metafisica, a manifestare,
secondo
Heidegger,
il suo essere nulla, costituendosi,
infatti, sul nulla ed in questo
senso, irreparabilmente, in vista del nulla
6).
In chiave di lettura filosofica, si può, allora,
superare il nichilismo?
Ovverosia, ha senso superarlo o parlarne? Perché
non fondare la propria esistenza vivendo per il nichilismo,
ovverosia vivendo il nichilismo
fino in fondo, come propone, per esempio, Vattimo
7)?
Per quel che riguarda il problema del nichilismo,
così come posto da
Heidegger,
più che rispondere alle domande messe qui in
gioco è, anzitutto e primariamente, necessario
cogliere l’essenza del nichilismo,
ovverosia rispondere al senso o non-senso del nichilismo
a partire da ciò che
Heidegger
definisce essenza stessa del nichilismo.
Ora, partendo proprio dalla domanda sull’essenza del
nichilismo
bisogna dire che, per
Heidegger,
il nichilismo
non è fenomeno a cui ci si può avvicinare
dall’esterno, ma accadimento (interno)
che appartiene alla storia stessa dell’essere e quindi
al darsi e ritrarsi dell’essere nelle diverse aperture
storico-epocali della metafisica
8).
Visto da questa angolazione, il nichilismo,
allora, è destino epocale legato al pensiero
dell’essere, ma di quell’essere, però, in cui
heideggerianamente dell’essere non è più
niente. Di qui, intanto, la necessità heideggeriana
di ripensare il destino metafisico come erranza che
non è solo da riferire al soggetto in quanto
singolarità, ma alla storia dell’essere in generale.
Per rispondere alla domanda sopra avanzata: se ne va
dell’essere nella sua storia, ha certamente senso, come
mette in luce
Heidegger,
porsi filosoficamente la domanda sull’essenza del nichilismo
e ripensare il destino metafisico in termini di (superamento)
Überwindung, o meglio di consumazione
interna della metafisica (Verwindung der Metaphysik)
della soggettività. In questa consumazione interna,
si tratta di andare alle radici del processo nichilistico
che
Heidegger
riconduce al mutamento dell’essenza della verità
iniziato con Platone.
Mutamento di una verità, intesa originariamente
come svelatezza o discoprimento (aletheia/Unverborgenheit)
dell’essere, quindi costitutivamente come essenza stessa
dell’essere, che però con Platone,
e successivamente a lui, assume, da prospettiva heideggeriana,
il carattere nudo e crudo di soggettività o meglio
soggettità (Subiektität),
questo il termine di
Heidegger.
Verità come soggettività e non verità
come essere. È la soggettività che a partire
da Platone
è il punto (metafisico) di riferimento
o d’inizio di rovesciamento della verità dell’essere.
È, infatti, ormai la soggettività l’istanza
che pretende di cogliere l’essere nel suo essere e d’imporsi
o volersi imporre sull’essere. È l’imporsi del
dominio dell’ente in cui l’essere, gioco forza, si detrae
e cade in oblio. Se seguiamo
Heidegger,
con l’avanzata del primato della soggettività
o soggettità non siamo più nella storia
dell’essere, anzi completamente e irreparabilmente fuori
dal dominio dell’essere e quindi fuori dal dominio della
verità. Siamo entrati appunto nella storia della
metafisica del soggetto. Detto diversamente: siamo entrati
nella storia della dimenticanza dell’essere (Seinsvergessenheit)
che
Heidegger,
con grande lucidità, identifica nel mondo contemporaneo
col tema o problema della tecnica dispiegata o Gestell.
Ovverosia: con la messa a fuoco dell’essenza della tecnica,
legata alla storia della metafisica proprio in termini
di oblio dell’essere. La tecnica si configura come impero
o dominio a partire dall’imporsi della Subjektität,
ecco perché, per
Heidegger,
le sue tracce portano lontano, indietro nel tempo, già
al pensiero di Platone
in cui l’ente ha priorità sull’essere: di qui
l’oblio o dimenticanza dell’essere. Come dire, l’essenza
della tecnica si configura, per un verso, come destino
della metafisica del soggetto, per altro verso come
l’autocompiersi ed esaurirsi di questa metafisica. Ma
in prospettiva heideggeriana, la tecnica, come si può
notare, non è il prodotto del caso, piuttosto
destino metafisico che è incluso, come si diceva
sopra, nel darsi e sottrarsi epocale dell’essere. In
questo senso, l’essenza della tecnica rappresenta l’esperienza
epocale che è, sì, abbandono dell’essere,
nello stesso tempo essa offre, però, la possibilità
di comprendere la storia della metafisica nella sua
essenza compiuta e quindi nella sua dissoluzione. Comprendere,
cioè, quella storia ch’è dominio dell’ente
sull’essere, nichilismo
appunto, essendo questo la storia nella quale, heideggerianamente,
dell’essere non è niente.
--Verità
come ritorno all’essere
--Come
rispondere (filosoficamente) allora
al nichilismo
se la sua storia è storia dell’essere, ovverosia
la storia nella quale ormai dell’essere non è
più niente?
Rispondere alla domanda significa ricostituire l’essere
come verità, o meglio ricostituire l’essere nella
sua verità, ciò significa però
un ritorno inaggirabile all’essere. Un ritornare, cioè,
intanto, al punto di partenza che ha dato avvio a quel
mutamento dell’essenza della verità il cui risultato
è nichilismo
o il niente. Qual è questo punto di partenza,
quale l’inizio? L’inizio del mutamento della verità
si ha allorché, a partire da Platone,
alla svelatezza originaria dell’essere, si è
fatto corrispondere lo sguardo ontico dell’ente-uomo,
allorché la verità non è stata
più intesa come discoprimento (aletheia), ma
come corrispondenza tra rappresentazione e rappresentato.
A partire da questo mutamento, che ha travolto l’essenza
della verità, non è più l’essere
a spiegarsi all’uomo, ma l’uomo a spiegarsi l’essere
e più precisamente: è l’uomo a spiegare
l’essere nel suo essere. Se seguiamo le linee tracciate
da
Heidegger,
anche Kant
non ha fatto molto meglio per superare la dimenticanza
dell’essere. Infatti, è vero che Kant
non desume più la conoscenza dalla corrispondenza
tra rappresentazione e rappresentato, piuttosto dalla
corrispondenza della conoscenza a regole, ovverosia
seguendo le linee che sono già tracciate nella
struttura dell’intelletto, ma più che superare
la dimenticanza dell’essere passa da una verità
come teoria della corrispondenza ad una verità
come teoria dell’oggettività del rapporto di
rappresentazione 9)
e niente più. Il primato dell’ontico non viene
affatto meno. Tutt’altro, tant’è che la verità
è intesa sempre ancora e comunque come qualcosa
che si può riconoscere o di cui si può
disporre se si ha la possibilità di una sua fondazione
o di un logos valido universalmente la cui vincolatività
è riconosciuta o riconoscibile da tutti
10).
Nell’ottica della metafisica tradizionale, punto di
riferimento della verità diventa la determinata
realtà che, di volta in volta, viene assunta
come logos, storia, ragione, sacro, divino, ecc., ovverosia
come categoria che rappresenta l’essenza vera dell’uomo
e a cui l’uomo è obbligato e in cui l’uomo deve
riconoscersi se vuole giungere alla sua vera essenza
o al suo vero sé (si veda in questo contesto
la critica devastante ai concetti formulata da Stirner).
La metafisica della presenza (Metaphysik der
Anwesenheit) di cui parla
Heidegger,
è tutta dispiegata già qui, in un concetto
di verità in cui si cerca, di volta in volta,
il criterio, il punto metafisico di fondazione ultimo
per la verità e la conoscenza
11).
--
Heidegger
rovescia tutta la storia del pensiero occidentale proprio
con la domanda: “perché crediamo che la verità
sia qualcosa che abbia bisogno di un criterio?”
12).
In questa domanda si trova uno dei punti di partenza
fondamentali per discorrere del concetto di verità
in
Heidegger
e di eredità heideggeriana, il fatto, cioè,
che alla costrizione, se vogliamo, autogiustificativa,
o meglio alla fissazione (come direbbe Max
Stirner) nella ricerca di un criterio sovrastorico
come fondamento della verità, indipendentemente
dal linguaggio, dalle regole e dalle forme di vita di
una determinata comunità,
Heidegger
abbia voluto contrapporre le sue grandi scoperte: la
temporalità e storicità dell’essere, quindi
l’inaggirabile prestruttura del comprendere o il circolo
ermeneutico, in ultima analisi e fondamentalmente: la
ricerca di un nuovo linguaggio. Ricerca che ha contribuito
non poco alla svolta linguistica in filosofia, ad un
nuovo modo di filosofare o meglio di pensare con tutti
gli effetti anche d’irritazione che ha causato e causa
l’intraducibilità che tutti noi conosciamo del
linguaggio heideggeriano. Come sempre vogliamo valutare
questa svolta verso un nuovo linguaggio, tutto possiamo
fare, ma non scindere il pensiero di
Heidegger
dalla ricerca linguistica, dall’ossessione di creare
un nuovo linguaggio che corrisponda al linguaggio dell’essere
o della verità e uscire, in definitiva, dal linguaggio
metafisico. Ma qual è il linguaggio della verità
e quindi non metafisico? Sappiamo che
Heidegger
ha fatto ricorso, in un primo momento, al concetto di
Unverborgenheit (aletheia). Nel saggio
Dell’essenza della verità (“Vom Wesen der Wahrheit”
del 1930 (pubblicato nel 1943), egli dice: verità
è “die Offenständigkeit des Verhaltens”.
Ovverosia, se seguiamo la versione offerta dall’ottima
interpretazione di Rorty
13):
verità è ciò che accade nell’atto
originario della creazione di un linguaggio. Parlare
di nuovo linguaggio, per
Heidegger,
non significa allora corrispondere a criteri (già
esistenti o elaborare concetti da far corrispondere
agli oggetti nel senso tradizional-metafisico di adaequatio),
ma aprirsi al processo di creazione di nuove possibilità
dell’essere. (Negli sforzi linguistici di Derrida
si nota, penso, con chiarezza questa eredità
heideggeriana). Il linguaggio della verità è
veramente tale, allora, se è apertura (Lichtung).
In questa prospettiva, se partiamo dall’assunto che
non possiamo disporre di nessun criterio assoluto o
oggettivo, anche e soprattutto per la determinazione
degli stessi criteri, si comprende facilmente che per
l’esattezza o la giustezza (Richtigkeit)
di proposizioni, o per la verità, in generale,
viene a mancare quel punto d’osservazione intoccabile
che si riteneva ancora possibile nell’ontologia metafisica
tradizionale o nella metafisica, che
Heidegger,
definisce della presenza (Metaphysik der Anwesenheit).
Detratta alla metafisica, la verità è
situata ora, invece, nell’accadere del linguaggio stesso
e più precisamente: in quelle (nuove)
forme di linguaggio che sono discoprimento dell’essere.
Sotto questo punto di vista, dire linguaggio significa
dire allo stesso tempo e primariamente rientro nell’essere.
Si tratta, in termini heideggeriani, del passaggio o
di quella svolta (o Kehre), come
Heidegger
stesso la definisce, che noi possiamo riassumere con
le parole: il passaggio dal carattere trascendente dell’esserci
alla temporalità quale orizzonte proprio dell’essere
o più precisamente: il passaggio dall’ontologia
fondamentale, in cui si parte ancora dall’esserci ovverosia
dalla capacità progettuale dell’uomo, all’evento,
all’accadimento (Ereignis)
dell’essere. Nel saggio già citato Dell’essenza
della verità,
Heidegger
dirà: “il salto nella svolta” è da intendersi
come “una svolta entro la storia dell’essere” (Seyn)
14).
La svolta, precisa
Heidegger,
“non è un cambiamento del punto di vista di Essere
e Tempo, in essa il pensiero che là veniva tentato,
raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione
a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza di
Essere e tempo, come esperienza fondamentale dell’oblio
dell’essere”
15).
È importante notare che con la svolta, il problema
della verità non si pone più sul piano
dell’esserci, ma sul piano della radura, quindi sul
piano stesso dell’essere. Luogo della verità
è la svelatezza, il discoprimento e non più
l’apertura (Erschlossenheit): appunto
l’Ereignis.
Ma che cos’è l’essere come evento o accadimento?
--Il
passaggio dal primo inizio all’altro inizio
16)
--Certo,
alla domanda cos’è l’essere ognuno cerca risposta
da quando c’è un filosofare. E
Heidegger
col centrare tutto sull’essere, sulla verità
dell’essere e sul senso della verità dell’essere
sembra suggerire di poter dare una risposta definitiva
a questi interrogativi. Effettivamente, però,
Heidegger
più che risolvere gli interrogativi dati con
l’essere
17),
si limita a farci entrare nel tema della verità,
ma non nel tema della verità così come
posto nella tradizione metafisica, per esempio in quello
legato alla contrapposizione di essere
e nulla, piuttosto nel tema
della verità a partire da un concetto di essere
i cui caratteri non sono più, come nella metafisica
tradizionale, quelli dell’assolutezza, dell’immutabilità
o definitività, ma quelli della temporalità
o storicità, o nella terminologia di Vattimo
– quelli della complicità di essere
e tempo
18)
. Essere e tempo, così l’opera ritenuta fondamentale
di
Heidegger,
fa chiarezza sul modo completamente nuovo di rapportarsi
all’essere. Nella contrapposizione tradizionale di essere
e nulla, nell’aver assegnato tradizionalmente all’essere
un senso di immutabilità e non di storicità
e finitudine, si dispiegano per
Heidegger
tanto l’abbandono dell’essere (Seinsverlassenheit)
quanto la dimenticanza dell’essere (Seinsvergessenheit).
L’essere, così
Heidegger,
ha abbandonato il modo di essere dell’essente per cui
l’essere rimane nascosto, impensato e ininterrogato
nella sua verità. È chiaro che qui si
può subito sollevare la domanda: come fa
Heidegger
a parlare di essere, se l’essere nella sua verità
è occultato, impensato, ininterrogato? Ora, se
vogliamo avvicinarci alla soluzione di questa (apparente
o vera) aporia dobbiamo passare dal primo al
secondo
Heidegger,
similmente al salto (Sprung) che costituisce
e costruisce la svolta (Kehre) nello
stesso
Heidegger.
Fare, cioè, il salto nel Sein che in Essere e
tempo mancava. In che cosa consiste questo salto o Sprung?
Il salto nel Seyn è per
Heidegger
il salto dal primo inizio 19)
(l’inizio
della filosofia occidentale, l’ontologia metafisica)
all’altro inizio, all’inizio non più metafisico
(all’inizio, cioè, che è da venire, se
verrà, si dovrebbe forse aggiungere ed io sono
scettico su questo “verrà”). Per
Heidegger,
si tratta però non di un salto qualunque, ma
del salto nell’essere. Anche in questo caso si presenta
qualche domanda e forse anche qualche ulteriore aporia:
intanto si ha l’impressione che l’essere non sia così
astratto come a prima vista potrebbe sembrare. Sembra
anzi, che
Heidegger
sappia che cos’è l’essere, tant’è che
lui parla di salto in. Ma la domanda non meno centrale
è: su quali presupposti evitare dimenticanza
e abbandono dell’essere?
Heidegger
risolve il problema premettendo che il salto nell’essere
è l’apertura dell’essere. Come si può
notare non si tratta, allora e semplicemente, di un
oltrepassamento dall’uno all’altro inizio (dalla dimenticanza
alla manifestatività dell’essere),
per esempio, per il tramite della mediazione del pensiero
e per processo di riflessione. A dire il vero, l’altro
inizio (cioè l’inizio postmetafisico)
sta a significare, invece, che l’uomo dovrebbe trasformare
la sua essenza. Si potrebbe subito aggiungere: solo
dopo questa trasformazione, l’ente-uomo entrerebbe nella
possibilità della domanda sull’essere. Ma questo
non è nemmeno il punto. Quel che
Heidegger
richiede è il mutamento o passaggio da uomo razionale
metafisico a uomo custodia dell’essere. In questo caso
e solo in questo caso si tratterebbe del salto giusto:
di un salto come inizio ancora più originario,
di un inizio iniziale a monte del primo inizio, in altri
termini, dell’inizio di un pensiero nuovo, dell’inizio
che apre una nuova storia, di un inizio che non è
più quello metafisico o l’inizio del niente o
dello sprofondare nel nichilismo,
ma il manifestarsi dell’essere: si tratterebbe dunque
di essere nell’essere, di vivere nell’essere, con l’essere.
Di un inizio appunto vero, dunque, nuovo, se vogliamo
appunto postmetafisico, così come teoretizzato,
anche se da prospettive certamente diverse, da nichilisti
come sopra menzionati, per esempio da Stirner
e Nietzsche.
Ma diversamente da Stirner
e Nietzsche,
ed in modo più radicale,
Heidegger
solleva qui un problema di grande attualità e
portata teorica: il problema del fondamento o della
fondazione della verità stessa. Se vogliamo:
il problema della conoscenza e della scienza. E qui
Heidegger
rivoluziona una volta in più non l’uno o l’altro
indirizzo scientifico o di pensiero, ma tutto il pensiero
metafisico occidentale. Quindi: tutte le categorie della
conoscenza e della scienza. Perché qui ne va
del pensiero stesso e del suo senso e della sua verità.
E nulla rimane in piedi delle procedure e dei metodi
delle scienze e della logica dei criteri delle scienze
e del loro fondamento. Non da ultimo, questo spiega
l’espressione heideggeriana: la scienza non pensa. La
scienza, infatti, per
Heidegger
non coglie la verità. Col che non si apre necessariamente
al sacro o al divino, anche se una lettura del pensiero
di
Heidegger
in chiave teologica sarebbe non poco interessante come
dimostra per esempio uno studio molto accurato di Jüngel
e Trowitzsch
20).
Ma torniamo al problema del pensiero che come si diceva
sopra, a questo punto, non è né mio né
tuo né nostro, ma dell’essere stesso. Infatti,
ciò di cui si parla come pensiero e interrogazione
nei passaggi che intercorrono tra il primo e l’altro
inizio, avviene, per
Heidegger,
non per facoltà del soggetto, ma dall’intonazione
(Einklang) dell’essere, nella necessità
della dimenticanza dell’essere, come salto, quindi,
nell’essere per la ‘fondazione’ della sua verità
come preparazione a quelli che in futuro sono (in
mezzo o) tra uomo e Dio
21).
Si può notare: nel pensiero così pensato
nulla rimane della scienza e di scientifico. E allora
poniamo la domanda: ma che cosa dobbiamo intendere con
in mezzo o tra (zwischen)? La risposta
heideggeriana è: quel in mezzo o tra è
proprio la verità dell’essere (Seyn),
la radura (Lichtung) dell’essere che
si avvera non come procedura di scienza, ma come accadimento,
non per volontà del soggetto, ma per apertura
dell’essere. A questo accadimento l’uomo può
certo appartenere, ma non come soggetto dell’accadere
o come scienziato o possessore di verità, piuttosto
come colui che nell’accadimento è usato
22).
Certo, anche qui i termini heideggeriani sono esposti
al gioco linguistico di cui lui è, allo stesso
tempo, maestro e artefice unico. Usato (gebraucht)
è da intendere nel senso che l’uomo è
riportato a ciò che è proprio suo ed in
esso l’uomo è, come tale, appunto, mantenuto.
Cosa dicono di nuovo questi concetti? Non dimentichiamo
il passaggio dal primo all’altro inizio (e cioè:
dal primo filosofare, quello metafisico all’altro
filosofare, quello del manifestarsi dell’essere).
Per cogliere il senso di questo essere usato dell’uomo,
dobbiamo tener presente, allora, che l’uomo è
un essere usato nell’accadimento della verità,
per cui rientriamo nuovamente nel tema dell’abbandono
e della dimenticanza dell’essere. Nella necessità,
cioè, a partire dall’essere: non come necessità
a partire dal mio essere. Nella necessità del
pensiero, ma, come dicevo sopra, non nella necessità
del mio pensiero. Di quale pensiero? Di quale essere
allora? In termini metafisici, la domanda tradizionale
dell’essere si pone nei termini: “Was ist das
Seiende?” (Cos’è l’essente?).
È la domanda-chiave della tradizione metafisica
e corrisponde, in termini heideggeriani, al primo inizio
(erster Anfang), all’inizio di quel
pensiero metafisico che, a partire da Platone,
ha determinato tutta la storia dell’Occidente e lo sprofondare
nella non-verità e nel nichilismo
e a cui
Heidegger
vorrebbe far seguire l’altro inizio: l’inizio dell’essere
e della verità. Ma per questo mutamento o nuovo
inizio, alla domanda Was ist das Seieinde
(Cos’è l’essente) deve seguire
un’altra domanda; la domanda che apre all’altro inizio,
al nuovo inizio appunto. La domanda: Was ist Sein? (Cos’è
essere?), come domanda di fondo (Grundfrage)
della metafisica. Questa domanda di fondo o Grundfrage
è però cosa (Sache) di
un pensiero diverso, di un pensiero non più metafisico,
non di verità delle proposizioni o di verità
proposizionale, in generale, nel senso di un pensiero,
per così dire, scientifico, ma, e come si accennava
sopra, è domanda di un pensiero che è
il fatto stesso della verità dell’essere. A tale
proposito, nel saggio, Lettera sull’umanismo
Heidegger
scrive: “Il pensiero, detto semplicemente, è
il pensiero dell’essere. Il genitivo vuol dire due cose.
Il pensiero è dell’essere in quanto, fatto avvenire
dell’essere, all’essere appartiene. Il pensiero è
nello stesso tempo pensiero dell’essere, in quanto,
appartenente all’essere, e all’ascolto dell’essere”.
Indubbiamente, possiamo chiederci fino a che punto
Heidegger
riesca a sciogliere le aporie che crea intorno al concetto
essere. Nella quarta edizione alla prolusione (del 1943)
di Cos’è metafisica (Was ist Metaphysik),
Heidegger,
per esempio, precisa: “appartiene alla verità
dell’essere che, sì, l’essere è essenzialmente
senza l’ente, ma che mai invece l’ente è senza
essere”. Nell’edizione del 1949, si può invece
leggere: “appartiene alla verità dell’essere
che mai l’essere sia essenzialmente senza l’ente, e
che mai un ente è senza l’essere”. In qualche
modo, la difficoltà data con la differenza di
essere e ente (di ontologico e ontico)
e del loro rapporto di interdipendenza o interrelazione
o di dipendenza dell’ontico dall’ontologico
23),
rimane un problema di fondo irrisolto del pensiero heideggeriano.
Tant’è che l’essere ovverosia l’accadimento o
l’evento, in altri termini l’Ereignis
se da un lato è se stesso, dall’altro è
pensato come rapporto di co-appartenenza all’ente-uomo.
Non è facile uscire dall’aporia e il gioco linguistico
potrebbe continuare in infinitum, tant’è che
Heidegger
in Identità e differenza (Identität
und Differenz) del 1957 riprendendo il discorso
del rapporto di co-apparteneza precisa: “La
differenza di essere ed ente è in quanto dif-ferenza
di trasmissione e avvento la composizione di entrambi
che svela e vela”
24).
A prescindere dalla soluzione o meno dell’aporia o altre
aporie di cui sopra si parlava, rimane una interpretazione
di fondo senza orma di dubbio il voler sottrarre l’essere
all’uomo in quanto l’essere è cosa fondamentalmente
dell’essere stesso, appunto sempre e comunque Ereignis
indipendente dall’uomo; d’altra parte l’essere heideggeriano
ha un rapporto particolare con l’uomo: è, sì,
se stesso, ma nello stesso tempo ha sempre e comunque
un rapporto come si diceva di co-appartenenza, o per
meglio dire, essenziale, con l’ente-uomo, in quanto
nell’apertura o radura dell’essere è situato
il Dasein dell’umano. Ora chi cerca la verità,
indipendentemente dall’aporeticità o meno dell’impostazione
heideggeriana, non può fare a meno che partire
dal fatto che l’ente-uomo è situato non nell’assolutezza
dello spirito hegeliano o nell’Io trascendentale di
Kant,
ma nella temporalità del Dasein. Temporalità
che costituisce il Dasein. Né c’è, d’altro
canto, come ci insegna
Heidegger,
una linearità o un susseguirsi progressivo (un
imporsi hegelianamente della ragione nella storia, un
logos, una provvidenza, un Dio) che progressivamente
illuminano sempre meglio e sempre di più il cammino
umano tortuoso dall’ignoranza alla conoscenza, il passaggio
dal male al bene ecc.. La verità heideggeriana,
che non ha nulla da condividere col procedere delle
scienze e con i criteri di esse, non è un prodotto
del soggetto e della sua metafisica, tutt’altro come
abbiamo più volte messo in evidenza. Dal momento
che l’essere può darsi come sottrarsi, anche
la verità può svelarsi o velarsi. La verità
non è dell’uomo né della sua intenzione
e intuizione: essa è della storia dell’essere,
movimento a partire dell’essere, tant’è che,
per
Heidegger,
nella verità “si è o non si è”.
Col che, ovviamente, anche la radicale confutazione
della metafisica finisce per assumere un significato
diverso e forse ambiguo. Il pensiero dell’essere è
certo pensiero non metafisico se è cosa dell’essere
e della sua verità, ma e d’altra parte, la metafisica
sembra essere, allo stesso tempo, all’interno della
storia dell’essere e tale da velare l’essere stesso.
Ciò spiegherebbe anche il darsi e sottrarsi (epocale)
dell’essere e della verità (nonché la
ricerca di termini che spieghino un “superamento” della
metafisica e quindi un superamento dell’oblio dell’essere:
si va non a caso, come detto inizialmente, dalla Überwindung
alla Verwindung della metafisica), dall’impossibilità,
quindi, quasi di sottrarsi al suo destino, ad una consumazione
interna a se stessa della metafisica, ovverosia una
consumazione della metafisica all’interno dell’essere
che porta alla luce una paradossalità interna
all’essere stesso, se l’interpretazione qui avanzata
regge quanto implicitamente supposto. La consumazione
della metafisica, all’interno dell’essere, porta però
a compimento anche l’avverarsi del destino metafisico.
L’altro inizio che dovrebbe susseguire al primo inizio
(che costituisce quello metafisico)
dovrebbe essere, infatti, quel nuovo inizio oltre-metafisico,
libero ormai dal velarsi dell’essere perchè espressione
dell’essere: quell’apertura postmetafisica che s’impone
dall’intonazione (aus dem Anklang)
dell’essere nella necessità, a cui sopra accennavo
e direi ormai estrema dovuta alla dimenticanza e all’abbandono
dell’essere, in cui il destino metafisico che ha raggiunto
con la tecnica il suo culmine consuma anche i suoi ultimi
resti, e apre così a partire dall’altro inizio,
la verità dell’essere e può finalmente
porsi da sfondo a quelle figure umane dell’ “ultimo
Dio” che è “l’inizio della storia futura”
25).
--Per
concludere
--La
risposta heideggeriana al nichilismo
creato dal consumarsi irrimediabile del destino metafisico
e della sua compiuta mancanza di senso è questo
altro inizio che lascia dietro di sé il primo
inizio della storia del pensiero Occidentale. È
l’aprirsi ad un nuovo inizio di pensiero, scrollandosi
di dosso il carico, direi anche e soprattutto nichilistico
a cui il pensiero soggiaceva, quel niente assoluto,
cioè, che lo costituiva, essendo il nichilismo,
come si diceva all’inizio, la storia in cui dell’essere
non è più niente.
--Un
messaggio di forte attualità e che fa parte dell’eredità
heideggeriana, a cui non possiamo rinunciare, è
senz’altro il pensiero interrogante (das fragende
Denken) che è qui alla base del superamento
del niente metafisico e nichilistico. --In
altri termini: alla base dell’apertura all’inizio della
verità dell’essere, a quel nuovo radicale della
storia dell’esistenza umana che può solo ergersi
sulle rovine dell’esaurirsi del vecchio mondo metafisico
e quindi dalla necessità appunto dell’intonazione
(Anklang) dell’essere o verità,
però non più come un altro nuovo logos
(definitivo), sia esso divino o umano,
ma logos
non più logos: temporalità, storicità,
finitudine.
Michele
BORRELLI
--note:
--1)
"Pensiamo questo pensiero nella sua forma più
terribile: l’esistenza, così com’è, senza
senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza
un finale nel nulla: ‘l’eterno ritorno’. È questa
la forma estrema del nichilismo:
il nulla (il ‘non senso’) eterno!", così
Nietzsche,
in Der europäische Nihilismus, tr. it. di S. Giametta,
Il nichilismo
europeo. Frammento di Lenzerheide, Adelphi, Milano,
2006, pp. 13-14.
--2)
Nietzsche
scrive testualmente: "In fondo solo il Dio morale
è infatti superato", ivi, p. 14.
--3)
M. Stirner, Der Einzige und sein
Eigentum, tr. it. di L. Amoroso, L’unico e
la sua proprietà, Adelphi, 1999, 2a ed.
2002.
--4)
In Il nichilismo europeo, op.
cit., ivi, pp. 18-19, Nietzsche
scrive: "La specie d’uomo più malsana d’Europa
(...) è il terreno di questo nichilismo: essa
considererà la fede nell’eterno ritorno una maledizione.
Quando si è colpiti da questa, non si arretra
più di fronte a nessuna azione: non estinguersi
passivamente, ma fare estinguere tutto ciò che
è a tal punto privo di senso e di scopo”.
--5)
Karl Löwith, Il nichilismo europeo,
a cura di C. Galli, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 47.
--6)
Heidegger scrive: “Il ‘senza senso’
significa il senza verità: il rimanere assente
della radura dell’essere. La mancanza di senso si compie
con il fatto che questo rimanere assente persiste nell’inconoscibilità
e con essa l’essere scompare nella dimenticata dimenticanza.
‘Essere’ vale a pena ancora come la parola più
universale non problematica del più vuoto e del
più universale, l’ente ha preminenza senza perplessità.
Esso si manifesta e si afferma nella pretesa di essere
senz’altro fattibile e di conseguenza pianificabile
e calcolabile. Offrendosi in tal modo l’ente ottiene
con la forza nell’uomo il privilegio esclusivo della
fattura. L’inarrestabile delle sue aperture illimitate
pone un incantesimo nell’umanità, in virtù
del quale per essa l’ente sempre solo fattibile è
tutto. ‘Essere’ – abbandono dell’essere – compimento
della mancanza di senso. Quando la mancanza di senso
si compie, i ‘valori’ (i valori vitali e culturali)
vengono proclamati i più alti scopi e forme degli
scopi dell’uomo. I ‘valori’ sono sempre solo la traduzione
occulta dell’essere senza verità nei meri titoli
di ciò che è considerato stimabile e calcolabile
nell’unica cerchia della fattibilità. È
il valutare della trasvalutazione di tutti i valori,
non importa in quale direzione essa si possa attuare,
è il definitivo ripudio nella compiuta mancanza
di senso” (M. Heidegger, “Il comunismo e il destino
dell’essere”, vol. 69 ed. completa degli scritti, tr.
it. di L.P.Capano, per il passo citato vedi MicroMega
4/99, pp. 286-287).
--7)
Scrive Vattimo in Filosofia al presente,
Garzanti, Milano 1990, pp.26-27: “La nostra è
una civiltà nichilistica, ed è per questo
che proviamo quello che Sigmund
Freud chiamava ‘il disagio della civiltà’:
nel mondo moderno, che è il mondo della scienza
e, soprattutto, della tecnica dispiegata, l’uomo ha
perduto punti di riferimento, sicurezze, valori stabili,
e si trova in quella situazione che nel vocabolario
del pensiero di derivazione hegeliana e marxista
è stata definita di ‘alienazione’. La mia tesi
sarà in generale che oggi noi non siamo a disagio
perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché
siamo ancora troppo poco nichilisti, perché non
sappiamo vivere sino in fondo l’esperienza della dissoluzione
dell’essere: da qui quell’insieme di sensazioni di frustrazioni
e di disagio che si chiama alienazione.” A p. 28, si
può leggere: “Io proporrei una definizione di
nichilista diversa …, una definizione in cui mi riconosco
quando mi dichiaro nichilista e sostengo che dobbiamo
diventare nichilisti in maniera più profonda”.
E a p. 28, ibidem, si può leggere: “Penso…che
una concezione praticabile, ed anche positiva, di nichilismo
nella nostra cultura sia quella secondo cui, affinché
l’esistenza abbia un senso, l’essere non deve avere
quei caratteri di stabilità, immutabilità,
definitività che, a parere mio, e a parere di
autorità filosofiche maggiori di me, il tradizionale
pensiero metafisico gli ha conferito, dalla filosofia
dei greci in avanti”.
--8)
Vedi sul contesto, R.
Rorty, “Heidegger wider die Pragmatisten”, in Wirkungen
Heideggers, neu hefte für philosophie, 23, Vandenhoeck
& Ruprecht, 1984, p. 2.
--9)
Ivi , p. 4.
--10)
Il rifiuto di ogni criterio è
tale in Heidegger
che la sua interpretazione della Critica della ragion
pura di Kant
lo costrinse, in un primo momento, ad una forzatura
a dir poco altamente paradossale. Interpretando, infatti,
la Critica della ragion pura come fenomenologia, la
(questione normativa o) quaestio iuris è, per
Heidegger: “solo la formula per il compito di una analitica
della trascendenza, vale a dire di una pura fenomenologia
della soggettività del soggetto e cioè
quella di un [soggetto] finito”. La forzatura non ha
bisogno di alcuno sforzo ermeneutico se si parte dal
presupposto che eccetto la fenomenologia trascendentale
di Husserl, non c’è fenomenologia che non sia
per sua natura ontologia e quindi sempre anche modo
di vedere completamente esterno e contrapposto ad ogni
deduzione trascendentale come quaestio iuris. Ne è
prova il fatto che lo stesso Heidegger, in ultima analisi,
abbia successivamente dovuto rifiutare anche la deduzione
trascendentale perché non conciliabile con l’ontologia.
Cfr. U. Claesges, “Heidegger und das Problem der Kopernikanischen
Wende”, in neue hefte für philosophie, 23, Wirkungen
Heideggers, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen,
1984, pp. 75-112. Vedi soprattutto, pp. 91 e 99. Cfr.
Anche K.-O.
Apel, Auseinandersetzungen – In Erprobung des transzendentalpragmatischen
Ansatzes, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998, soprattutto
il paragrafo “Heideggers Beitrag zu einer Transformation
der Transzendentalphilosophie, der letztlich auf eine
Destruktion hinausläuft”, pp. 513-536. Scrive Heidegger:
“Die transzendentale Deduktion ist fast durchgängig
unhaltbar, doch gibt Kant gleichwohl in ihrem Verlauf
philosophische Anstösse, die man nur in der rechten
Weise aufangen und in die rechte Bahn lenken muss”.
--11)
Per il contesto vedi anche R.
Rorty, “Heidegger wider die Pragmatisten”, in Wirkungen
Heideggers, neue hefte für philosophie, 23, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen, 1984, pp.1-22.
--12)
Cfr. R.
Rorty, “Heidegger wider die Pragmatisten”, in neue
hefte für philosophie, 23, Wirkungen Heideggers,
Vandenhoeck & Ruprecht, 1984, pp. 1-22.
--13)
HGA IX, 201, tr. it. di F. Volpi, Segnavia,
Adelphi, Milano, 1987, p. 156.
--14)
M. Heidegger, Lettera sull’umanismo,
Adelphi, Milano, 1995, p. 52. “Esperire in modo sufficiente
e partecipare a questo pensiero diverso, che abbandona
la soggettività, è reso peraltro più
difficile dal fatto che con la pubblicazione di Sein
und Zeit la terza sezione della prima parte, Zeit und
Sein, non fu pubblicata (…) Qui il tutto si capovolge.
La sezione in questione non fu pubblicata perché
il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa
svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del
linguaggio della metafisica”.
--15)
O. Pöggeler nel suo libro Der Dekweg
Martin Heidegger, riporta il seguente passo di Heidegger
che K. Tsujimura considera la struttura di base del
pensiero del tardo Heidegger: “Was gesagt wird, ist
gefragt und gedacht im ‚Zuspiel’ des ersten und des
anderen Anfangs aus dem ‚Anklang’ des Seyns in der Not
der Seinsvergessenheit für den ‚Sprung’ in das
Seyn zur ‚Gründung’ seiner Wahrheit als Vorbereitung
der ‚Zukünftigen’ des ‚letzten Gottes’ ”. Vedi
K. Tsujimura, Zur Bedeutung von Heideggers ‚übergänglichen
Denken’ für die gegenwärtige Welt, in neue
hefte für philosophie, 23, Vandenhoeck & Ruprecht,
1984, pp. 46-58, cit. p. 46.
Heidegger scrive: “Nel primo inizio l’essere dispiega
la propria essenza come schiudimento; nell’altro inizio
l’essere dispiega la sua essenza come evento”. (Cfr.
M. Heidegger, “Il comunismo e il destino dell’essere”,
it., ivi, p. 295).
--16)
Rorty
si chiede: “Perché Heidegger
pone sempre di nuovo la domanda sull’essere, senza mai
dare una risposta? Suppongo che la risposta sia: perché
l’essere è un buon esempio per qualcosa per cui
noi non possediamo criterio alcuno per rispondergli”,
ivi, p. 13.
--17)
Interpretando Heidegger, Vattimo testualmente:
“l’essere è in quanto è prima e dopo,
è tempo”, in idem, Filosofia al Presente, cit.,
p. 29.
--18)
Cfr. Koichi Tsujimura, “Zur Bedeutung
von Heideggers‚ übergänglichem Denken’ für
die gegenwärtige Welt”, in neue hefte für
philosophie, 23, Wirkungen Heideggers, Vandenhoeck &
Ruprecht, Göttingen, 1984, pp. 46-35.
--19)
Rinvio per questo contesto all’interessante
contributo di E. Jüngel e M. Trowitzsch, “Provozierendes
Denken – Bemerkungen zur theologischen Anstössigkeit
der Denkwege Martin Heideggers”, i. neue hefte für
philosophie, 22, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen,
1984, pp. 59-74.
--20)
A pagina 144 del libro Der Denkweg Martin
Heidegger di O. Poggeler si trova il seguente passo
di M. Heidegger: “Was gesagt wird, ist gefragt und gedacht
im ‘Zuspiel’ des ersten und des anderen Anfangs aus
dem ‘Anklang’ des Seyns in der Not der Seinsvergessenheit
für den ‘Sprung’ in das Seyn zur ‘Gründung’
seiner Wahrheit als Vorbereitung der ‘Zukünftigen’
des ‘letzten Gottes’ ”. Vedi a riguardo K.TsuJimura/Kyoto,
“Zur Bedeutung von Heideggers ‘übergänglichem
Denken’ für die gegenwärtige Welt”, in Wirkungen
Heideggers, neue hefte für philosophie, 23, cit.,
pp.46-58.
--21)
Cfr. K.TsuJimura/Kyoto, “Zur Bedeutung
con Heideggers…”, cit., p. 51.
--22)
Commentando l’interpretazione heideggeriana
della Critica della ragion pura di Kant, Claesges si
chiede: ”Kann die apriorische Erkenntnis bei Kant als
ontologische Erkenntnis in dem Sinn verstanden werden,
dass sie die Offenbarkeit des Seienden ermöglicht,
die für die aposteriorische (ontische) Erkenntnis
notwending vorauszusetzen ist?”, cfr. U. Claesges, “Heidegger
und das Problem der Kopernikanischen Wende”, in neue
hefte für philosophie, 23, Wirkungen Heideggers,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1984, p.
94. Sarebbe anche interessante mettere a fuoco in che
senso si può veramente parlare di due tipi di
verità o di conoscenza: conoscenza ontica e conoscenza
ontologica.
--23)
“Die Differenz von Sein und Seiendem
ist als der Unter-schied con Ueber-kommis und Ankunft
der entbergernd-bergende Austrag beider”, Neschke, Pfullingen,
1957, p. 57.
--24)
Cfr. O. Pöggeler, Der Denkweg Martin
Heidegger, p.264.
--25)
Heidegger
era convinto, per quanto ciò possa far inorridire,
che “la storia dell’essere” dovesse passare “attraverso
la devastazione”. Sulla problematicità politica
di questa supposizione ci sarebbe molto da dire e non
è questione che può essere affrontata
in questa sede. Mi limito a riportare uno dei tanti
passi problematici di Heidegger. In “Il comunismo e
il destino dell’essere”, vol. 69, p. 94 (dell’edizione
completa degli scritti di M. Heidegger) egli scrive
per esempio: “Se mancasse quindi la devastazione effettiva,
ciò rappresenterebbe, dal punto di vista della
storia dell’essere la vera e propria catastrofe. Sarebbe
l’irrigidimento nello status quo”. (Cfr. per la citazione,
MicroMega 4/99, p. 282). “L’essere in quanto evento
porta anche nel suo abisso e in quanto tale un’essenza
mutata del lasco di spazio e di tempo originariamente
unito, lì la storia assume il suo futuro” (ivi,
p. 295).