--Ancora,
l’esortazione di Vattimo potrebbe averla pronunciata,
direttamente o indirettamente, quello stesso Gioacchino
che, volente o nolente, ne ha causato la recente
candidatura a San Giovanni in Fiore e ha
messo letteralmente in connessione Leo Franco Rizzuti,
sindaco di Serra Pedace, con chi vi parla. Spero per
tutti che sia meglio essere qui, piuttosto che trovarsi
altrove.
--Vorrei cominciare il
mio intervento invitandovi a guardare i paesaggi di
questo luogo, liberamente disinteressandoci di ciò
che ora, qui, sta avvenendo. Proviamo, sia pure per
qualche attimo, a girovagare cogli occhi e con l’immaginazione,
un po’ come fanno certi registi; Antonioni,
per esempio. Chi ha visto il suo Cronaca
di un amore sa quanto, nella celebre scena
sul ponte di ferro, il cineasta si diverta a giocare
con la macchina da presa, che fa muovere, quasi senza
limiti, per lo spazio circostante. Vi chiedo, allora,
di abbandonarci all’esplorazione della vista, provando
a registrare ogni immagine e ogni particolare dovessimo
inquadrare. Se ciò non fosse possibile adesso,
rammentando lo strano esercizio, cerchiamo di farlo
quando capita: sarà questo posto a trascinarci,
facendoci scoprire un’inedita capacità di selezione
di campi, davanti a tanto materiale da filmare, da imprimere
nella memoria e nello spirito.
--Le suggestioni di questa
selva, della Sila,
sono molte e non conosciute. È dunque la sua
verginità, il suo essere rimasta, anche se parzialmente,
fuori d’una certa speculazione edilizia e d’uno sfruttamento
irragionevole, a costituire, diciamo su un piano oggettivo,
un valido motivo di interesse espandibile, non soltanto
spicciolamente turistico. Della sua bellezza, è
significativa traccia nella letteratura antica (Virgilio)
e moderna (Goethe),
nel cinema (Il lupo della Sila, Occhio Pinocchio e altri),
nell’informazione specialistica (con servizi sui Giganti
della Sila), nella tradizione popolare e in molte
altre fonti che ne documentano l’unicità. Mi
piace riportare alcuni passi, tradotti da Laura Wilhelm,
di un’intervista
col regista Wim Wenders, venuto da queste
parti per catturare delle immagini e meditare.
--«Anzitutto
il cielo. Il suo blu ipnotizza lo sguardo. Lascia disarmati
e abbagliati per l’intensità e la profondità.
C’è la poesia dello spirito del Creatore. La
prima volta, arrivai in Sila all’alba. Vidi una trasformazione,
dalla muta oscurità della notte al lucente sussurro
della terra, ancora umida di riposo. Sopra, uno spazio
come tela d’unica tinta». Ancora Wenders: «Posso dire che, qui, in Sila, ho voluto
sondarmi oltre il vissuto e il mio modo di interpretare
il cinema. Questa montagna mi ha spiazzato, mi ha fatto
sentire un piccolo essere che cerca, deve cercare. Allora,
ho trovato la possibilità di pormi delle domande
su Dio».
--Non lontano da Silvana
Mansio, si trova Jure Vetere sottàno,
dove, anni fa, furono rinvenuti i resti della prima
chiesa dell’eremita Gioacchino, «di spirito profetico
dotato» nel Paradiso di Dante Alighieri.
Le circostanze del ritrovamento, francamente inatteso,
mi autorizzano a pensare che, di là da tutto,
si può ammettere una qualche influenza dell’abate
silano sulle vicende del nostro presente.
--Prima che qualificati
archeologi conducessero, lì, finalizzate campagne
di scavo, circolavano, mi pare, tutta una serie di ipotesi
sulla possibile esistenza dell’edificio in parola. Negli
ultimi decenni, grazie, soprattutto, alla caparbietà
del Centro
Internazionale di Studi Gioachimiti, le
ricerche sull’opera del teologo si sono sviluppate in
diverse direzioni, producendo importanti acquisizioni
filologiche e preziose ricostruzioni teoriche, che,
come dirà il suo presidente, il professor Salvatore
Oliverio, ci permettono di considerare
il ricorso di Gioacchino alla profezia come un «metodo
di lettura della storia».
--Mantenendo un atteggiamento
prudentemente scientifico, non si può tacere
la dipendenza di quella scoperta dal trasferimento sul
posto dei proprietari del terreno in cui essa avvenne.
Questi, infatti, residenti nel Nord dell’Italia, decisero
di avviare un’azienda agricola dimorando proprio a Jure
Vetere sottàno, dove, secondo quanto
riferitomi, assistettero ripetutamente a fenomeni difficilmente
spiegabili. Parlo di eventi di carattere fisico, di
improvvise variazioni della luce solare, ad esempio,
e, perfino, di manifestazioni - non trovo termini più
neutri - di presenze non umane né terrene. Anzi,
proprio una di queste avrebbe convinto i proprietari
del terreno a iniziare e richiedere degli scavi, poiché
contenente una prima, sorprendente rivelazione sull’ubicazione
della chiesa. Non intendo qui esporre i dettagli dell’intervista,
per la quale, e altro ancora, sono in debito con l’architetto
Pasquale Lopetrone, appassionante studioso
dei luoghi di Gioacchino. Posso solo affermare con convinzione
che il racconto dei miei interlocutori non può
ritenersi affatto un prodotto di fantasia o un artificio
adatto alla pubblicità.
--Chi, per esempio, ha
visto il film, di Richard Linklater, Waking Life, consigliabile
pure ai bambini, può agilmente convenire sulla
viva problematicità dell’imprevedibile e, seguendo Wittgenstein,
soffermarsi sul peso dei fatti. Non esistono oggetti
di ricerca afferrabili compiutamente. Tutta la conoscenza,
Popper lo insegna, è congetturale. L’impostazione
filosofica di Vattimo, per quella che è la mia
conoscenza del suo pensiero, non poggia sopra un metodo
scientifico. Il maestro, continuatore - e non solo -
di Heidegger e Gadamer,
ha cristianamente ripreso la verità di Nietzsche,
come, ad esempio, pare suggerire Franca D’Agostini in
Logica del nichilismo. Ma, sorge spontanea la domanda, qual
è la verità di Nietzsche? Che Dio è morto e non è poi risorto? Che,
con Cacciari, il buon Federico aprì le porte
a una logica di rifondazione tenendo fuori Bertinotti?
Che non c’è una verità nonostante il «verum
erit veritatem occidisse»? In un vecchio racconto
tutto logico, un tizio accusò Nietzsche di non
essersi reso conto che la morte di Dio è impossibile,
dovendosi ammettere, nel caso del suo decesso, una risurrezione
nel medesimo istante e dovendo perciò ripensare
e riformulare la nozione di «fine». La vera
essenza del nichilismo, col permesso di Severino, è
di lavanda. La verità
si costruisce, idealmente congiungendo i documentaristi
del sogno, Nietzsche e i postmoderni, liberandosi di
pregiudizi e assolutismi.
--La spesso richiamata
relazione linguistica fra credere e sapere, penso a Pierluigi Lia,
ad esempio, in Libertà incatenata e trascendenza,
potrebbe servirci banalmente a ricordare che, di là
da misure e arbitrarie calibrazioni, il credere comporta
sempre un sapere e il sapere comporta un credere. Con
più d’una probabilità, lo scetticismo
conseguente all’ascolto del racconto sulla chiesa di
Gioacchino ci deriva dal considerare il rapporto tra
credere e sapere solo nel verso del sapere, prima di
credere; tralasciando che per sapere si deve credere.
Io non sarei qui a tediarci, se non avessi qualcosa
di realmente interessante da offrire. Scartiamo, quindi,
l’ipotesi d’una mia totale invenzione o d’una deviazione
narrativa sul modello, ormai stranoto, di Dan
Brown. Interroghiamoci, parecchio saltando,
sulla possibilità che possa ammettersi un qualche
nesso causale fra ritrovamento della chiesa, avvicinamento
fra Saverio Alessio, presidente di “Emigrati.it”, e
chi vi parla, cooperazione di entrambi per via d’una
condivisa escatologia florense riportata sul web, nascita
della Voce di Fiore, candidatura di Vattimo a San Giovanni
in Fiore, fondazione della onlus “grandincontri”, contatto
fra il sottoscritto e Leo Rizzuti in nome del filosofo
di origine calabrese e organizzazione del Primo Festival
internazionale della Filosofia in Sila.
--Gianni
Vattimo venne a San Giovanni
in Fiore, per la prima volta, il 25 settembre del 2004,
tra i relatori del sesto Congresso internazionale di
studi gioachimiti. Per un equivoco, giunse all’aeroporto
di Lamezia Terme nella mattina
dello stesso giorno e non, come previsto, la sera precedente.
Vattimo parlò, quindi, nel tardo pomeriggio,
piuttosto che, come in programma, alle 9. Dopo cena,
incontrò un gruppo di giovani, presso il salone
dei padri Cappuccini, per un dibattito organizzato con
alcuni amici. Nel pubblico, c’erano soprattutto minorenni.
L’occasione era buona per una discussione libera su
temi attuali, anche perché, durante l’anno, a San
Giovanni in Fiore accade ben poco sul piano
culturale. Accanto a Vattimo, c’eravamo io, moderatore
non moderato, e don
Battista Cimino, missionario reduce
da un terribile agguato in Burundi.
I due si confrontarono muovendo da prospettive solo
apparentemente diverse e concordarono sul valore della
carità. Padre Cimino rivolse a Vattimo una domanda
propriamente kantiana. «Che cosa possiamo
fare, professore?». Vattimo rispose ragionando
sulla pratica della carità e sull’esempio tangibile
del missionario, per il quale, forse, riprendendo il
filosofo nel suo Credere di credere,
non ci sarebbe alcuna separazione fra esistenza e significato.
Ma, prima ancora, Vattimo comunicò della sua
presenza al congresso su Gioacchino, via e-mail, nottetempo.
Eravamo andati a prenderlo con l’autista Franco Barile.
Vattimo doveva atterrare alle 21 e 15. Sino alle 22,
non avevamo sue notizie. Lo chiamai a casa, sospettando
che fosse a Torino. Riferì che non era certo
di riuscire a prendere il primo volo diretto del giorno
seguente e che, nonostante l’importanza dell’appuntamento,
le difficoltà di collegamento con la Calabria
potevano pregiudicarne la partecipazione. Tornai a casa,
controllai la posta elettronica, trovai il suo messaggio
delle 22,45. «Caro Emiliano, partirò alle
7,10 di domattina. A Lamezia alle 8,40. Che Dio me la
mandi buona. Ciao, a presto (è il caso di dirlo!)».
In sostanza, sto solo provando a significare che Vattimo
poteva benissimo rimanere a Torino e, per certo, la
sua decisione di scendere a San Giovanni in Fiore, per
quanto m’appoggi alle buone argomentazioni di Perelman
sull’argomentazione e a quella prassi di Abbado che
il maestro Filippo Martelli definisce «socialità
sorridente», non fu affatto per merito del sottoscritto.
Con Vattimo, ci eravamo sentiti alcune volte per telefono,
sempre mescolando l’interesse filosofico, suo, per la
verità, con una sorta di non sensi sensati, ironici
e tipici dei nichilisti più ortodossi. In altre
parole, in quelle conversazioni dovute a Meucci, c’era
l’annullamento della differenza culturale e anagrafica,
probabilmente perché i capricorni, che pure hanno
molto specializzato l’emisfero sinistro del cervello,
direbbe il brainframeista
De Kerckhove, vagano, inventano, trascendono.
Il giornalista Aldo Cazzullo, del Corriere
della Sera, ha rappresentato bene questa
caratteristica di Vattimo, che lo rende molto diverso
da intellettuali di cui si spande l’eco, come Eco, da
altri che non sono mai cacciati, come Cacciari, e da
figure dalle rotondità verbali e fonatorie come
Rodotà, del quale ho trovato il telefono personale
dopo tre minuti di Internet, in barba alla privacy.
Dal canto mio, mi sono sempre sentito una specie di
Ulrich di Musil, un uomo veramente senza qualità.
Nuovamente a Vattimo, egli partì per un richiamo
gioachimita. Qualche giorno prima, mi disse che ciò
che lo attraeva del pensiero dell’abate era la sua apertura
a una possibilità, anche terrena, se vogliamo.
--Leggendo Credere di credere, si seguono passaggi analoghi
di Vattimo, che idealmente possono collegarsi al discorso
condotto in La società trasparente sull’emancipazione
per via dei media. Ho trovato vari punti di connessione
fra il pensiero di Vattimo e quello di De
Kerckhove. Diversa è l’origine del
ragionamento. L’approdo mi sembra abbastanza prossimo.
L’uno, sui media, analizza le paure di Adorno e degli
adorniani, arrivando allo strutturalismo di Levi-Strauss,
che non c’entra coi jeans. L’altro comincia dall’alfabeto
e dalla disuguaglianza culturale fra gli uomini, superando
il mito dell’Egalité, nato coi Lumi di quell’Europa
trainante di cui scrive noiosamente Pierre Chaunu. Entrambi
concordano sull’idea di un mondo da vivere e costruire
anche spiritualmente. Per Derrick, addirittura, il corredo
di strumenti tecnologici di cui ognuno di noi, salvo,
forse, Dotolo,
fa uso e ri-uso, sarebbe un prolungamento del corpo, una
specie di aura del santo, come spiegherà
assai meglio più tardi. Spesso mi sono trovato
suggestionato da visioni filosofico-politiche per cui
un mondo altro è possibile. Quelle, teologiche,
sulla possibilità di un altro mondo sono famosissime
e oggetto di importanti dispute nella storia.
--Sulla Voce, avevamo affrontato,
con Alfonso
Iacono, l’argomento dell’uscita dalla minorità.
In un’intervista rilasciata a Maria
Costanza Barberio, il filosofo «dell’isola
dei giardini» accennò alla sua convinzione
che l’emancipazione delle maggioranze in minorità
può avvenire con la politica. La sua mi pare
una prospettiva postcolonialista e, nel contempo, una
riedizione d’un certo marxismo. «La storia è
scritta, dunque, fatta, mediante rapporti di forza»,
mi scandiva davanti alla piccola Elena, trasmettendomi
la lezione di Ginzburg. E, poi: «Leggi Jonas e
medita sull’ammissibilità della non onnipotenza
di Dio». Carmelo (Dotolo) dopo
batti tutti i colpi che vuoi. Insomma, le mie letture,
le mie frequentazioni e la mia rabbia per la situazione
culturale, politica, economica e sociale di San Giovanni
in Fiore, mi indussero a pensare che bisognava organizzare
una nuova base sociale almeno per esprimere dissenso,
per non rimanere lì, muti, a guardare. L’incontro
serale con don Battista e Vattimo, uscito dal congresso
su Gioacchino, fu prezioso. C’erano, in prevalenza,
idealisti, coscienze animate da princìpi rivoluzionari,
quelli che hanno «fede cieca in poveri miti»
e che, secondo Peppe Voltarelli, non hanno compreso
d’essere estranei alla cultura del dopo Sessantotto,
sia sul piano del linguaggio che dei mezzi di comunicazione.
C’erano, dunque, tutte le condizioni per riscoprire
il gusto dell’assemblea, istituto della sinistra universitaria,
in voga negli anni Novanta, che mi rievoca, molto spesso,
le pellicole di Benigni Ti voglio bene Berlinguer e
Il mostro. Passate tre ore davvero intense, la sparai:
«Vattimo sindaco di San Giovanni in Fiore».
Lui sorrise; abbassò il capo. Pausa beckettiana
e: «Vediamo». Intanto si va avanti. Nei
mesi successivi, scrivemmo una lettera aperta sulla
Voce, proponendogli disperatamente la candidatura. Sapevamo
che la politica tradizionale avrebbe offerto il solito
spettacolo di riciclaggi, ripari e moggismi. Così
avvenne. Ma la candidatura di Vattimo anticipò
e confuse i giuochi - come spesso scandisce Carlo Cecchi
- delle parti. Con la Voce, ci impegnammo intensamente
a condurre un discorso culturale. Saverio
Alessio prese le pagine di urbanistica
e architettura, Francesco Saverio Oliverio avviò una rubrica politica in cui trattò
della rivalutazione del leninismo, dell’obiettività
della stampa e della necessità, per i giovani,
dell’azione politica. Intervistammo Gian
Antonio Stella. Alcuni giornalisti
calabresi confinati ci aiutarono, incuriositi dall’iniziativa
di un giornale glocale che
si prefiggeva, anzitutto, di connettere San Giovanni
in Fiore col resto del mondo.
--Rispolverando le conclusioni
dell’indagine di Edward Banfield a Chiaromonte, occorre
dire che permane, a San Giovanni in Fiore, il centro
più grosso della Sila, un largo familismo
amorale, un interesse prevalente per problemi
e necessità del mero nucleo familiare, variamente
allargato. La politica della città di Gioacchino
non ha mai riflettuto seriamente, negli ultimi decenni,
sull’importanza di operazioni culturali tese a formare
una visione socialista della società. Anzi, paradossalmente, ha lavorato per creare l’indifferenza dell’individuo,
zoon politikon, per la cosa pubblica, la casa pubblica,
la solidarietà, la cooperazione e la vita pubblica. In un contesto del genere, si inserisce il
dramma dell’emigrazione, sondato e descritto
dall’etno-psichiatra
Salvatore INGLESE, il quale si soffermò
sul disagio prodotto nei residenti dalla ferita nei
legami affettivi causata dalle migrazioni. Riguardo
a San Giovanni in Fiore, la scrittrice canadese Anna
Paletta Zurzolo fornisce, nel libro Pane
Vino e Angeli, edito da Rubettino,
un quadro degli stati di dominio e dell’ingiustizia
sociale successivi alla nascita della Repubblica. Parallelamente,
nella narrazione, la Zurzolo si interroga pure, bambina,
sulla paura, individuale e sociale, provocata dal bisogno
economico. Il forte attaccamento ad alcune tradizioni
e convenzioni della gente di San Giovanni in Fiore comportò
due diverse forme di campanilismo: una intra
moenia, piuttosto corrispondente alla totale impermeabilità
rispetto a stimoli culturali e all’assoluta inibizione
nonostante diversi catalizzatori di reazioni politiche;
l’altra, quella dei residenti all’estero, che si sostanzia
in una specie di nostalgia malinconica, una saudade
florense. Comunque, nell’ultimo caso, un radicamento
positivo e spesso conservativo dei valori della vecchia
società contadina, umana e solidale, sovvertiti
e annientati, nei locali, dalla devastazione - a opera
della politica - dei simboli e delle tracce della storia
e della cultura di San Giovanni in Fiore. Una valutazione
antropologica della società florense ci autorizza
a propendere per un suo pesante arroccamento, ancora
vigente, con responsabilità divise, come abbiamo
visto, fra l’incapacità
della politica, l’emigrazione obbligatoria, lo stallo
culturale. Di fronte questa realtà,
coi giovani della Voce e Saverio
Alessio - il quale già prima lavorava
a Emigrati.it,
progetto di ricostruzione analitica della vicenda politica
di San
Giovanni in Fiore e nodo di studio e informazione
sull’emigrazione e il
Mediterraneo - tentammo di avviare una
rete, anche in rete, di intelligenze, saperi, contatti
e ideali, con l’obiettivo di costituire l’alternativa.
Conversero, allora, la candidatura di Vattimo, i giovani
del suo movimento, le serate culturali, i dibattiti
e le iniziative di sensibilizzazione organizzate dalla
Voce, i gemellaggi con associazioni del Sud e Nord italiano
e gli spazi critici ricavati nel web, ampliati, aggiornati
e moltiplicati. La rete si fece per davvero;
in rete. Spontaneamente, si aggregarono gruppi eterogenei,
universitari e navigatori elettronici; su tutti Federico
La Sala. L’anello di congiunzione era ed
è l’idea che cultura
e politica sono da considerarsi un atomo non scindibile,
un organo che, ove separato, non permette quegli scambi
reciproci fra le due parti costitutive e determina inevitabilmente
uno stato patologico della società, così
come se del cervello o del cuore venissero compromessi
un emisfero o un ventricolo. Il risultato elettorale
delle comunali non era proprio il nostro pensiero principale.
Certo, avessimo vinto, avremmo gestito la cosa pubblica
con tutte le responsabilità richieste, sapendo,
peraltro, che non è difficile sbagliare. L’obiettivo
era, per vero, quello di aprire un orizzonte, abituati
a schermature naturali e a impedimenti istituzionali
dovuti alla paura
del cambiamento. Di più, volevamo
trovare un modo per aprire il guscio in cui ritenevamo
si fosse - e riteniamo sia rimasta - chiusa San Giovanni
in Fiore e portare i suoi problemi culturali, assai
rilevanti per l’antropologia e la sociologia, su più
vasta scala. Volevamo che il mondo, ormai piccolo, conoscesse
difetti e pregi del piccolo mondo florense. Volevamo
- e vorremmo - che - come scrive Beckett - «tutta questa bellezza» e - come riprende John
Trumper - questa «caggiula»
non rimanessero segrete; che questi luoghi, i nostri
artisti, i nostri talenti, i nostri argomenti fossero
visti, ascoltati, compresi, discussi, divulgati. Volevamo
- e vorremmo - avere voce, senza aspettare la morte
d’un eroe o di qualche ardente e illuso disturbatore,
per suscitare soltanto un ecumenismo pietistico, in
nome della partecipazione al dramma universale dei depressi.
Perciò, intensificammo gli incontri e i lavori, passando la maggior parte del nostro tempo a
cercare testi, dati, collegamenti, analisi, sintesi
e utopie. Non potevamo ignorare l’avvento
della Terza Età previsto dall'abate di Fiore.
Gioacchino visse anche tra queste montagne. E non per
caso.
--Ho passato un po’ di
tempo dentro alcuni libri sul monaco. Ho visitato spesso
gli scavi a Jure vetere sottàno e seguito i lavori
del quarto, quinto e sesto Congresso internazionale
del Centro studi gioachimiti. Credo che Gioacchino abbia
scelto questi monti, come lascia intendere Gianluca
Potestà in Il tempo dell’Apocalisse,
in quanto persuaso del loro potenziale ascetico. Perché,
allora, scartare del tutto la possibilità che
«in questa selva selvaggia», dolce e «forte»,
possa esserci un seme e un campo per la trascendenza?
E perché bocciare da principio l’idea che questa
possa valere come affrancamento, emancipazione, libertà
d’azione e riconoscimento d’un ruolo o d’una valenza
culturale, con implicazioni politiche ed economiche,
di questo posto e della sua gente? E, ancora,
perché escludere che Internet possa rappresentare
uno strumento capace di prolungare il corpo mistico
- in quanto provato - di questa società florense,
cui l’ascesi è mancata per le ragioni prima esposte? Ascesi come elevazione spirituale e culturale, «ricerca
del tempo perduto», partecipazione attiva alla
storia, abbandono della logica dell’abbandono e della
rassegnazione, dell’attesa di Godot, dell’utilitarismo
familistico, della passività esistenziale e della
dipendenza dalla politica istituzionale. Ascesi come
pratica dell’autoperfezionamento individuale e sociale,
come Bildung dinamica nella collettività, non tesa alla trasparenza
per l’oggettività ma all’educazione dell’interiorità
soggettiva, nella prospettiva di un’uscita corale dalla
minorità. In un interessante scritto di Saverio Alessio
dedicato all’ermeneutica via web, le stesse
considerazioni sono svolte su un piano personale e con
insistenza, di cui non sono capace, sull’ispirazione
poetica d’una vita, come è da queste parti, vissuta
in una periferia del mondo globalizzato, colonizzata
tramite l’imposizione d’una sfiducia privata e pubblica.
Ritornano, allora, nel discorso e in connessione, termini
come «poesia»,
«ascesi», «trascendenza»,
«reazione»
ed «emancipazione»,
che non possono intendersi da un punto di vista utilitaristico
e familistico né respingendo quel coinvolgimento
alla storia di questo contesto, fin qui tentato. Gadamer scrive: «Chi vuol comprendere un testo
deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso.
Perciò una coscienza
ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente
sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità
non presuppone né un’obiettiva ‘neutralità’
né un oblio di sé stessi, ma implica una
precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni
e dei propri pregiudizi». Lo stesso può
valere adesso.
--Spesso, il Sud passa
sulla stampa per Locri, Cinisi, Corleone, Napoli, Bari.
Se, invece, spuntano fermenti culturali autentici, nell’assoluta
mancanza di finanziatori privati, banche, Medici o Agnelli,
l’informazione nazionale li ignora o li colloca immediatamente
su un piano localistico. Eppure, i settentrionali vengono
da queste parti ad aprire i loro musei e proporre le
loro imprese turistiche e culturali, beneficiando di
lauti sostegni pubblici, non concessi, invece, ai comuni
mortali che qui dimorano. Rifuggendo l’impostazione
teorica filoborbonica dello storico Nicola
Zitara, ne accolgo, però, alcuni
esiti. Il
Mezzogiorno continua a essere spazio di dominio.
E, aggiungo banalmente, mantiene un alto tasso di consumi
e una scarsa produttività, nonostante gli entusiasmi
per le recenti statistiche espressi da Giovanni
Russo nel volume Nel Sud, senza bussola.
--Bisogna domandarsi, a
questo punto, se, per ritrovare la rotta, è sufficiente
una rete di connessioni come quella creata dalla Voce ed Emigrati.it,
che produce larghi interventi culturali sul campo. Occorre
domandarsi se basta aggrapparsi alla speranza gioachimita
d’un tempo nuovo e se, per
vivere oltre la sopravvivenza, può servire, qui,
la ricerca poetica, estetica od ascetica.
Ci si deve interrogare se, aumentando i contatti, la
partecipazione personale e istituzionale, può
realmente incidere la presenza e la lezione filosofica
e politica di Vattimo, Marramao, Zabala, Borrelli o l’invito all’ottimismo come pratica dello spirito,
da parte di Derrick
De Kerckhove. Bisogna capire quanto
teoria e pratica siano vicine e lontane, come l'angelo
di Wenders.
--Dal clima culturale e
politico sopra descritto, nacque la onlus “grandincontri”. Leo
Franco RIZZUTI, sindaco
di Serra Pedace, mi intercettò tramite Internet,
per posta elettronica. Il festival della filosofia era
nel programma del movimento “Vattimo
per la città”,
sul sito della Voce.
Per la verità, in casa nostra era stato considerato
fumo negli occhi e, comunque, qualcosa di non concreto.
Le buche delle strade cittadine hanno sempre preoccupato
elettori e politici navigati, a San Giovanni in Fiore.
Leo Rizzuti mi scrisse della sua volontà di realizzare
una giornata filosofica con Vattimo. Dopo i primi contatti,
in cui manifestò la viva convinzione di inseguire
il sogno d’un festival filosofico in Sila, capii d’aver
trovato finalmente un pazzo sanissismo, capace di guardare
lontano, scommettere, rischiare e attivarsi subito,
senza perdite di tempo. Mi concesse carta bianca. Pensai,
così, di riprendere l’utopia
gioachimita della Terza età. Avevo
da poco concluso un audiovisivo su Gioacchino
da Fiore, con la regia di Max
Cavallo, tratto da alcuni importanti sviluppi
del gioachimismo individuati da una paziente ricerca
di Pasquale
Lopetrone. Impressionato dai luoghi e racconti
florensi e dalla riscoperta della spiritualità
dell’abate, animato dal discorso culturale e politico
intrapreso con Saverio
Alessio e i giovani della Voce, Vincenzo
Tiano, Maria
Costanza e Domenico
Barberio, contattai Vattimo e, appresso, Santiago
Zabala, sottoponendo loro l’idea d’un convegno
sulla profezia di Gioacchino e l’ermeneutica del filosofo
contemporaneo. Mi spinsi oltre, col prezioso contributo
di Santiago, e misi in mezzo De Kerckhove. Può
ammettersi una sorta di attualizzazione del messaggio
gioachimita nella progressiva riduzione degli assolutismi
e nel pensiero (cristiano) della tolleranza teorizzati
da Vattimo? Si
può stabilire una qualche connessione tra la
spiritualità postulata da Gioacchino da Fiore
nella “dottrina degli ordini” e l’aura dell’uomo tecnologico
di cui parla anche De Kerckhove?
--1) L’intelligenza
connettiva è un termine che
uso per indicare l’impatto odierno di Internet
sul pensiero umano. Allo stesso tempo, è
un concetto che ha radici antiche, pre-verbali,
addirittura applicabile al regno animale, solo
che non era riconoscibile come tale. Questo per
dire che le nuove tecnologie, tutte le nuove tecnologie
ci danno semplicemente gli strumenti per analizzare
questa condizione dell’essere umano. Siamo abituati
a ritenere che il pensiero appartenga a una dimensione
privata, e questo è il frutto di quel tipo
di comunicazione specifico che è la lettura.
Inoltre, il pensiero è considerato come
il risultato di un qualcosa di "interiore",
mentre il prendere la parola è immaginato
come un atto individuale. Ma anche il dialogo
fa parte del pensiero. Per questo ritengo che
il pensiero sia un "linguaggio silenzioso",
ma che la parola sia una forma di pensiero connettivo.
L’intelligenza connettiva trova un suo naturale
ambito nella connessione web, nella quale però
il singolo ha la duplice possibilità di
far parte di un gruppo senza perdere la sua identità
e di avere un’identità senza perdere il
senso del gruppo.
--Vorrei però
precisare che l’intelligenza connettiva è
differente dall’intelligenza collettiva di cui
si scrive quando si affronta la comunicazione
elettronica. In questo caso, l’intelligenza collettiva
è legata a universi a senso unico in cui
l’individuo si perde. L’individuo si perde, infatti,
nel discorso televisivo, nel discorso radiofonico,
esattamente come si perdeva nel discorso orale
comunitario. L’intelligenza
connettiva riguarda invece la possibilità
di condividere il pensiero, l’intenzione e i progetti
espressi da altri.
- Connected
Intelligence
Connected
Intelligence is an innovative technology that can address the educational challenge
of bringing students and teachers together
to generate a range of solutions by utilizing
the connective energy of knowledge networks
(human and virtual). It is based on
the work done by Derrick
de Kerckhove, Director of the McLuhan
Program and KPMG's Electronic Markets Group.
-
Sito
Web del Prof. de Kerckhove
Crucifissione
- di Francesco Saverio ALESSIO
Kènosis
--[...]
Con la fine della metafisica, scopo delle
attività intellettuali non è
più propriamente la conoscenza della
verità, bensì quella "conversazione" nella quale ogni argomento ha il fondato
diritto di trovare un accordo senza ricorrere
ad alcuna autorità. Lo spazio lasciato
vuoto dalla metafisica non deve più
essere riempito da nuove filosofie che pretendano
di esibire un fondamento estraneo alla "conversazione".
Nella cultura contemporanea, questa posizione
non è rappresentata solo dall'ermeneutica,
ma anche da scienziati come Thomas
Kuhn e Arthur Fine,
da filosofi come Robert Brandom e Bas van Fraassen e da
teologi come Jack Miles e Carmelo
Dotolo, nei quali la questione
della dimostrabilità delle tesi sostenute
rimane completamente aperta, giacchè
tali tesi si richiamano pragmaticamente
ed ermeneuticamente all'edificazione più
che alla conoscenza.
--Secondo Rorty e Vattimo, la secolarizzazione non è altro che la storia del pensiero
debole: è la secolarizzazione,
infatti, a insegnarci che le domande sulla
natura di Dio sono inutili a causa della
debolezza della nostra ragione. Vattimo
precisa che "l'indebolimento
che la filosofia scopre come tratto caratteristico
della storia dell'essere si chiama secolarizzazione,
intesa nel senso più ampio, che abbraccia
tutte le forme di dissoluzione del sacro
caratteristiche del processo di civilizzazione
moderno. Se però la secolarizzazione
è il modo in cui si attua l'indebolimento
dell'essere e cioè la kénosis di Dio, che è il nocciolo della storia
della salvezza, essa non andrà più
pensata come fenomeno di abbandono della
religione, ma come attuazione, sia pure
paradossale, della sua intima vocazione". 1) Non
ci viene detto che Dio non esiste, ma solo
che non è chiaro che cosa significhi
affermare o negare la sua esistenza.
--[...]
L'uomo post moderno, se assume fino in fondo
la condizione debole dell'essere e dell'esistenza, può finalmente imparare a
convivere con sé stesso e con la
propria finitezza, al di là
della residua nostalgia per la fine di ogni
assolutezza della metafisica. --Accettare
la condizione costitutivamente scissa, instabile
e plurale che è propria del nostro
essere, destinato alla differenza, alla
transitorietà e alla molteplicità,
significa essere in grado di praticare attivamente la
solidarietà, la carità e l'ironia.
L'uomo che distoglie la sua attenzione dall'oltremondo
e la rivolge a questo mondo e a questo tempo
(Saeculum significa anche "questo
tempo presente") si adopera per far
valere gli ideali del pluralismo e della
tolleranza ed evita che una particolare
visione del mondo s'imponga servendosi dell'autorità
che le è attribuita. La "morte
di Dio" (un'espressione che originariamente
appartiene a Lutero) oggi indica l'icarnazione,
la kénosis (dal verbo kenóo, rendo vuoto),
con la quale Paolo allude al "vuotarsi
di se stesso" compiuto dal Verbo
divino che si è abbassato alla condizione
umana per morire sulla croce. Tutto
questo ci spinge verso una concezione meno
oggettiva e più interpretativa della
rivelazione, vale a dire verso una concezione "dell'ultimo dio". 2)
tratto
dalla INTRODUZIONE - Una religione senza
teisti e ateisti - (pag. 23-24) a
IL
FUTURO DELLA RELIGIONE - Solidarietà,
carità, ironia - Richard RORTY - Gianni VATTIMO
--a
cura di Santiago
ZABALA, edito da GARZANTI,
2005
note:
1) Vattimo, Dopo la cristianità, Garzanti,
Milano 2002, pp. 27-28
2) M.
Heidegger, Beiträge
zur Philosophie ( Vom Ereignis ), Vittorio
Klostermann, Frankfurt am Main 1989
-
-
der
andere beschreibt,
um jeden Preis "zu
sein", er holt
die Bewegungen aus der Escatologia
des Gioacchino
da Fiore heraus,
und zeigt die Interpretation
der verbindenden Intelligenz,
die sich zum Frieden in der
Welt, zur Rettung des Glücks
der Menschheit wendet, also
so bestimmbar ist wie ein “ Escatologia
Florense“.
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